Analisi e proposte per una nuova ecologia sociale
Nel mondo contemporaneo convivono — spesso in tensione — tre diverse logiche del valore. La prima è quella del capitale simbolico, concetto introdotto da Pierre Bourdieu per descrivere il potere che deriva dal riconoscimento sociale: prestigio, reputazione, fiducia, gratitudine.
È un capitale “morale”, accumulato non attraverso il denaro, ma attraverso atti, comportamenti, contributi e relazioni che una comunità ritiene degni di stima. Chi dona il proprio tempo o si impegna nel volontariato accumula capitale simbolico: ne riceve rispetto, appartenenza e un senso di identità condivisa. E’ proprio della famiglia, delle piccole comunità e del tempo passato…
Le banche del tempo, diffuse in Italia e nel mondo, rappresentano una delle forme più note di capitale simbolico organizzato
La seconda è la logica del social score, resa celebre dai modelli di reputazione digitale (e spesso distopici) sperimentati in alcune società autoritarie. Qui il riconoscimento diventa controllo: ogni comportamento viene misurato, valutato e tradotto in un punteggio che determina accesso o esclusione da servizi, credito, libertà di movimento.
Il social score si fonda sull’asimmetria di potere: chi assegna il punteggio non è la comunità dei pari, ma un sistema che osserva, registra e giudica.
Infine c’è la logica del valore d’uso puro, quella dell’economia materiale. Qui il valore è immediatamente “pagabile a vista”: un litro d’acqua disseta, un pasto nutre, un biglietto di autobus consente di spostarsi.
È il livello base della sopravvivenza e della dignità umana, senza il quale ogni capitale simbolico perde efficacia.
La chiave non è abbandonare il capitale simbolico, ma connetterlo a un sistema di valore d’uso
Il problema nasce quando queste tre logiche restano separate. Se il capitale simbolico non è traducibile in valore d’uso, resta un riconoscimento astratto. Se il valore d’uso domina senza simbolico, produce consumatori, non cittadini.
E se il social score pretende di misurare tutto, cancella la libertà e la spontaneità del dono.

Le banche del tempo, diffuse in Italia e nel mondo, rappresentano una delle forme più note di capitale simbolico organizzato. Ogni ora donata in attività di volontariato o mutuo aiuto viene registrata e può essere “spesa” ricevendo servizi equivalenti da altri membri della comunità. È un’economia del tempo, non del denaro: un’ora vale sempre un’ora, indipendentemente dal tipo di prestazione.
C’è un problema: Chi dona tempo e competenze non sempre trova un equivalente “spendibile” nelle proprie necessità quotidiane
Nel Regno Unito, i progetti Spice Time Credits (oggi “Tempo”) hanno esteso il modello grazie ad accordi con enti locali e imprese. I volontari accumulano crediti spendibili in teatri, cinema, mezzi pubblici o attività sportive. In questo modo il riconoscimento simbolico diventa parzialmente “pagabile a vista”: il tempo donato si traduce in accesso a beni e servizi reali, senza monetizzarsi.
In Italia alcune amministrazioni, come Bologna o Torino, hanno sperimentato forme di welfare comunitario in cui le ore di volontariato valgono come crediti per riduzioni tariffarie, mensa scolastica o trasporti sociali. Anche in questo caso il capitale simbolico si lega al valore d’uso attraverso partnership pubbliche.
All’opposto, il social credit system rappresenta la verticalizzazione di questa logica. Qui ogni comportamento è valutato da un sistema algoritmico e attribuisce o toglie punteggi che determinano diritti di cittadinanza. Non c’è reciprocità, ma sorveglianza; non riconoscimento, ma controllo. È un capitale simbolico svuotato di libertà, convertito in strumento di conformismo. E’ – insomma – un modello che appare lontano dalle radici culturali del Mediterraneo…

Il capitale simbolico, pur eticamente potente, soffre di una fragilità strutturale: non è immediatamente convertibile. Chi dona tempo e competenze non sempre trova un equivalente “spendibile” nelle proprie necessità quotidiane: mangiare, dormire, vestirsi, curarsi. Il riconoscimento resta morale, non materiale.
Questo limite diventa drammatico quando l’impegno sociale proviene da persone già vulnerabili. Per loro, l’impossibilità di trasformare l’impegno in mezzi di sussistenza può tradursi in ulteriore marginalità. Il rischio è di creare un’economia parallela del dono che, invece di emancipare, riproduce diseguaglianze: i ricchi possono permettersi di accumulare capitale simbolico, i poveri no.
Un secondo limite riguarda la scalabilità. Le reti di scambio simbolico funzionano bene in piccoli gruppi, dove fiducia e reputazione sono dirette. Ma diventano fragili quando il numero di partecipanti cresce: il riconoscimento perde intensità, la reciprocità si diluisce e le piattaforme digitali rischiano di sostituire la relazione con il punteggio.
Infine, vi è un rischio culturale: se il volontariato diventa “premiato” con crediti, può trasformarsi in una forma mascherata di lavoro non retribuito. Il confine tra dono e prestazione economica va tracciato con chiarezza per evitare che il simbolico sia usato come moneta di scambio impropria.

La chiave non è abbandonare il capitale simbolico, ma connetterlo a un sistema di valore d’uso, attraverso una rete di accordi tra Enti del Terzo Settore, amministrazioni locali e imprese responsabili.
Un modello “misto” può trasformare l’impegno sociale in credito civico, un capitale simbolico riconosciuto e parzialmente spendibile in beni e servizi concreti, senza snaturare il principio del dono. Le ricadute sarebbero davvero notevoli e rappresenterebbero una soluzione efficace per le problematiche delle nostre società colpite da una crisi sistemica molto significativa.
In pratica:
Le imprese aderenti — in particolare quelle con politiche di responsabilità sociale — accettano i crediti come forma di “moneta etica” per prodotti o servizi selezionati, convertendo così il simbolico in valore d’uso immediato.
Le amministrazioni locali riconoscono il valore di questo impegno come parte del proprio welfare territoriale, offrendo sconti o accessi agevolati a servizi pubblici (trasporto, cultura, sport, assistenza).
Gli Enti del Terzo Settore registrano e certificano le ore di attività volontaria, garantendone la qualità e la trasparenza.
Questo modello non monetizza il volontariato, ma ne valorizza l’impatto sociale. Il credito resta un riconoscimento, non un salario; ma diventa tangibile, concreto, “pagabile a vista” entro un perimetro di beni comuni e servizi di base.

Immaginiamo un progetto pilota chiamato “Bene Nostrum”.
Ogni cittadino che partecipa ad attività di cura del territorio — assistenza agli anziani, educazione ambientale, sostegno scolastico, manutenzione del verde — riceve un credito civico digitale registrato su una piattaforma open source gestita da un consorzio di enti no profit e dal Comune.
Ogni ora vale un’unità di credito. Il credito può essere:
I vantaggi sono molteplici:
- Riconoscimento tangibile dell’impegno civico — chi si dona riceve un segno concreto, senza trasformare il volontariato in lavoro precario.
- Inclusione sociale — le persone fragili possono contribuire e, nel contempo, ottenere accesso a beni e servizi fondamentali.
- Sostenibilità territoriale — le amministrazioni riducono costi di welfare passivo, investendo in coesione attiva.
- Responsabilità d’impresa — le aziende locali rafforzano la propria immagine etica partecipando al circuito.
- Economia circolare del bene comune — il valore generato resta nel territorio e si moltiplica attraverso scambi reciproci.
In sintesi: l’impegno sociale non è più un gesto “a perdere”, ma un atto generativo che produce benessere per chi dona, per chi riceve e per l’intera comunità.

Perché un sistema simile funzioni davvero, serve un’architettura aperta, trasparente e interoperabile, capace di garantire fiducia e replicabilità.
Il riferimento ideale è il mondo del software libero e delle licenze Creative Commons, dove ogni innovazione è condivisa e migliorabile da altri, a condizione di riconoscere l’autore e mantenere la stessa apertura.
Applicare una logica Creative Commons al capitale simbolico significa:
creare un “Social ISO/OSI model”, cioè uno standard a livelli — come avviene nelle reti informatiche ed a cui Prosumer APS sta lavorando da tempo — in cui ogni strato (dati, governance, servizi, riconoscimenti) è definito, compatibile e interoperabile con gli altri.
rendere aperti e verificabili gli algoritmi di calcolo e registrazione dei crediti;
rilasciare sotto licenza CC-BY-SA le regole, i protocolli e i modelli contrattuali, per permettere ad altre città o enti di riutilizzarli;
Un tale modello permetterebbe di costruire un ecosistema aperto di sostenibilità sociale, dove ogni attore — pubblico, privato, civico — partecipa secondo ruoli chiari, con un linguaggio condiviso e strumenti comuni.
Il capitale simbolico diventerebbe così un bene pubblico digitale, un’infrastruttura di fiducia collettiva alimentata da contributi diversi ma armonizzati.
La sfida della sostenibilità oggi non è solo ambientale, ma relazionale.
Richiede un’economia capace di misurare non solo ciò che produce profitto, ma ciò che genera legami, fiducia e coesione.
Il capitale simbolico del volontariato è una risorsa immensa e sottoutilizzata, perché non riesce ancora a trasformarsi in valore d’uso per chi più ne avrebbe bisogno.
“Pagare a vista” la sostenibilità non significa monetizzarla, ma riconoscere concretamente il valore dei gesti che tengono insieme la società.
Significa creare un’economia del riconoscimento reciproco, dove il bene comune non è solo un ideale ma una realtà quotidiana, accessibile e condivisa.

In un tempo dominato dalla sfiducia e dall’iperconnessione, restituire concretezza al simbolico — attraverso architetture aperte, accordi territoriali e piattaforme trasparenti — è forse il passo decisivo verso una nuova ecologia sociale, in cui l’atto di donare torna a essere, finalmente, un atto di cittadinanza sostenibile. Prosumer APS sta lavorando in questa direzione…
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